La giornata è stata organizzata dalla Fondazione Trame in collaborazione con l’Associazione Antiracket Ala e i familiari della vittima

Lamezia Terme. “A distanza di tanti anni cerchiamo ancora il corpo”. Carmelo Bertolami, figlio dell’imprenditore florovivaista sequestrato il 12 ottobre 1983, lancia ancora un appello a chiunque sia a conoscenza di qualcosa: “Chi sa parli”.

Nessuno ha parlato per quarant’anni, da quando Giuseppe Bertolami è stato prelevato senza lasciare traccia. Una vicenda oscura quasi dimenticata in città, sulla quale la Fondazione Trame e l’Associazione Antiracket lametina, nel quarantesimo anniversario del rapimento, hanno voluto accendere un faro.

Sul luogo in cui venne rinvenuta l’automobile dell’imprenditore, all’imbocco della strada provinciale 110 sulla statale 18, è stato deposto simbolicamente un mazzo di fiori dai volontari di Trame, alla presenza  del figlio Carmelo e dei familiari, del sindaco di Lamezia Terme Paolo Mascaro, del vicesindaco Antonello Bevilacqua, del nuovo comandante del gruppo carabinieri di Lamezia Terme Gianluca Zara e di altri esponenti delle forze dell’Ordine, della stampa e dei giornalisti Paride Leporace e Gianfranco Manfredi che seguirono il caso all’epoca dei fatti.

“L’iniziativa è un modo per cercare di dare un nuovo scossone, per ricordare all’intero Paese che questa vicenda è una ferita aperta per la famiglia, per la nostra comunità e per la giustizia. E il fatto che di vittime come Bertolami non si sia più saputo nulla, non ci sia stato il ritrovamento del corpo, non ci sia stato un luogo nel quale fare l’esercizio del lutto, è una cosa barbara” – ha dichiarato il presidente della Fondazione Trame Nuccio Iovene.

Nella stessa giornata le due associazioni hanno promosso un incontro – dibattito per dare eco all’appello dei familiari e riflettere insieme su quella che è stata la lunga stagione dei sequestri in Calabria e in particolare a Lamezia terme.

“Furono circa 700 i rapiti in 20 anni, oltre 50 di loro non fecero mai ritorno a casa e di 28 non furono mai ritrovati i corpi” – ha introdotto così Iovene l’evento, ricostruendo un periodo storico durissimo che coinvolse l’intera penisola tra gli anni ’70 e gli anni ’80, “il primo esperimento di accumulazione capitalistica della ndrangheta” e “la prima forma di pressione permanente sulla classe imprenditoriale”.

Carmelo Bertolami ha ripercorso l’intera vicenda del sequestro: “Ero nell’ufficio di un geometra quando mi chiamarono per dirmi che avevano sequestrato mio padre. Notai che c’era la macchina con il quadro acceso, spenta, con la marcia innescata e lo sportello era aperto. A casa fu una tragedia. Sono stato per 3-4 giorni accanto al telefono sperando che qualcuno chiamasse, ma non arrivò nessuna notizia. Fu la Gazzetta del Sud a pubblicare un testo con la data e sotto c’era la firma, la prova che era vivo, e la richiesta di “quattro stecche per Sant’Antonio”, 4 miliardi in sostanza. Volevano che, una volta pronti a pagare, mettessimo la notizia negli annunci del giornale. Durò un anno la trattativa. A marzo del 1984 arrivò una lettera a un nostro collega vivaista. Eravamo arrivati a un accordo, per un miliardo, con la spiegazione dei percorsi per consegnare il denaro. Tre percorsi: Lamezia-Reggio Calabria in autostrada all’andata e al ritorno lungo la statale 18; Lamezia-Soverata salendo dall’Angitola; Lamezia-Castrovillari in autostrada, poi qualcuno mi avrebbe indicato con una torcia di fermarmi. Il primo tragitto va a vuoto. Il secondo percorso invece non sarà mai tentato. Poco prima di partire hanno telefonato al collega dicendo: “Non fatelo partire perché è seguito”. Da allora si sono interrotti tutti i contatti. In quel pericolo successero dei fatti importanti a Lamezia. Morirono un sacco di persone. Ci furono molti omicidi. Ci dissero che probabilmente il sequestro era stato effettuato da un clan all’insaputa dell’altro”.

I giornalisti Pantaleone Sergi (La Repubblica), Gianfranco Manfredi (Il Messaggero) e Carlo Macrì (Il Corriere della Sera), sulla base delle rispettive esperienze professionali, hanno delineato il contesto in cui avvenne il sequestro e il ruolo che all’epoca ricoprì la stampa, concordando sulla disattenzione quasi totale da parte del mondo dell’informazione: “I giornali nazionali non scrissero quasi nulla”. “Lamezia ebbe un ruolo centrale nella stagione dei sequestri, alcuni casi non furono neppure denunciati. E, insieme a Bertolami, c’erano altri quattro rapiti in città”.

Una situazione emergenziale, dunque, difficile da gestire per gli investigatori e da raccontare per i cronisti. Non è mancato il riferimento ai casi balzati agli onori della cronaca, come quello di Roberta Ghidini e Cesare Casella, il cui eco mediatico è stato determinante per la risoluzione dei sequestri.

Appelli di solidarietà e giustizia sono stati manifestati dai rappresentanti di tutte le associazioni presenti, tra i più accorati quello di Giuseppe Politanò, vicesindaco di Polistena e coordinatore regionale di Avviso Pubblico (Associazione degli Enti locali contro le mafie), di Don Giacomo Panizza, fondatore di Comunità Progetto Sud, di Giuseppe Borrello, coordinatore regionale di Libera, di Filippo Sestito, rappresentante di Arci Nazionale, e di Enzo Scalese, Segretario Cgil Area Vasta.

Presente anche l’associazione “Icica Aps” che ha voluto donare un dipinto che ritrae l’imprenditore, con riferimenti all’auto rinvenuta e alla data della scomparsa, servendosi di una gamma cromatica ispirata a Boccioni.

Ha concluso l’incontro l’intervento del giornalista Giovanni Tizian, direttore artistico di Trame.Festival, che ha ammesso di trovare la storia di Bertolami molto simile alla sua personale e umana: figlio di una vittima innocente di ndrangheta senza giustizia, Peppe Tizian, cresciuto in un luogo cruciale nella storia calabrese dei sequestri, Bovalino, dove se ne contarono almeno 18.

Tizian, ricordando un altro rapimento finito male, quello del fotografo Lollò Cartisano suo compaesano, mai liberato nonostante il pagamento del riscatto e i cui resti furono ritrovati dieci anni dopo in seguito a una lettera anonima di pentimento, auspica che “qualcuno scriva o dica un pezzo di verità, in modo da restituire almeno un luogo simile a Pietra Cappa ai familiari. Basterebbe questo oggi”, aggiungendo inoltre che la volontà della fondazione è che “Trame diventi sempre di più il megafono attraverso cui chiedere verità e giustizia e il luogo in cui coltivare la memoria delle vittime innocenti di ndrangheta. Perché risiede in loro, nel loro coraggio di opporsi, la Calabria migliore”.